Eugenio Scalfari, in un articolo pubblicato sull’Espresso, il 28 luglio 1974, definì Gianni Agnelli “l’Avvocato di panna montata”. Il padrone della Fiat aveva, qualche giorno prima, deciso di vendere alla Rizzoli – dietro la quale s’intravvedeva l’ombra di Eugenio Cefis, il potente presidente di della Montedison combattuto dal fondatore e direttore per 20 anni de “La Repubblica”, – la quota del Corriere della Sera, detenuta dalla Fiat. E oggi, parafrasando Scalfari, si potrebbe definire il Pd, “il partito di panna montata”.
E sì, perché il Pd appare allo stato privo di contenuti e solo apparenza.
Risuona profetico il titolo di un libro del 2007 di uno degli storici esponenti del vecchio Partito comunista, Emanuele Macaluso, “Al capolinea. Controstoria del Partito democratico”. Il Pd, dopo la sconfitta nelle ultime elezioni politiche appare davvero arrivato al capolinea di una storia contradditoria, che non potrà essere certamente risollevata con il tema della leadership nel solco della tendenza alla oligarchizzazione della politica in Italia o con un eventuale operazione di maquillage basata sull’ennesimo cambio del nome.
Il Pd, sostenuto fortemente al tempo proprio da Eugenio Scalfari, rappresenta nei fatti il fallimento della prospettiva politica che il fondatore di “Repubblica” pose alla base della nascita di quel quotidiano, quella dell’azionismo non socialista per trasformare le masse operaie del Pci in senso liberaldemocratico e naturalmente di dirigerle illuministicamente verso l’abbraccio con il capitalismo italiano, con tanto di rendigote, lobbia ed ombrello alla Chamberlain.
Infatti, il consenso popolare organizzato dai comunisti si è dissolto, se è vero come è vero che gli operai e i nuovi precari del lavoro in piattaforma hanno votato anche per la destra nelle ultime elezioni. Così come, è finito l’esercizio dell’egemonia gramsciana nella cultura italiana nell’applicazione di Togliatti nel dopoguerra e il Pd si ritrova “compagni di strada” solo qualche giornalista del cosiddetto “politicamente corretto”, come Severgnini, Gruber, Fabio Fazio, Concita De Gregorio, Gramellini, Giannini, il cui osservatorio è tra Manhattan e Capalbio. Un partito democratico percepito come espressione delle élites e del mondo della finanza che si riunisce a Davos, il “partito delle ztl”, espressione della borghesia e del ceto medio cosiddetto “riflessivo”, che declama i diritti degli immigrati e del popolo Lgbt e che ha sposato un atlantismo dogmatico e subalterno, lontano dagli interessi popolari e da quel conflitto sociale che consentì al movimento operaio, base politica e sociale della sinistra nel Novecento, di imporre severe regole al capitalismo e di redistribuirne la ricchezza verso il basso, secondo l’efficace immagine non di un capo bolscevico dopo la presa del Palazzo d’Inverno in Russia, ma di un grande leader della socialdemocrazia mondiale: lo svedese Olaf Palme, che affermò “il capitalismo va tosato e non ucciso”.
Il Pd voluto da Veltroni quale prodotto politico da laboratorio, una sorta di tardo-compromesso storico “bonsai” – quello vero non avvenne per quella che Enzo Bettiza rappresentò con la metafora dello “scarpone chiodato” dei socialisti infilato nella commessura dei due battenti del portone oscurantista cattocomunista – con l’incontro tra ex-comunisti e la filiazione popolarista degli ex-democristiani, rappresenta la negazione per la sinistra italiana di un approdo omologo al riformismo europeo che, come è noto, è segnato dal protagonismo dei partiti di ispirazione socialista, socialdemocratica o laburista, per rappresentare i ceti popolari.
In Italia no: pur di non ammettere che nel 1921, in occasione della scissione bolscevica di Gramsci, Togliatti e Bordiga voluta da Lenin, Filippo Turati era stato profetico sulle ragioni del socialismo democratico, come anni dopo Giuseppe Saragat nel 1947 a Palazzo Barberini, Pietro Nenni nei successivi anni ’60 con il centrosinistra e Bettino Craxi negli anni Ottanta con il “Nuovo corso socialista”, in Italia gli eredi del Partito comunista hanno generato, mettendo assieme nella narrazione veltroniana I care, Berlinguer, Kennedy e Moro, una sorta di homunculus che sembrava uscito dal Faust di Goethe, infarcito della “questione-morale” di Berlinguer e di Dossetti, miseramente naufragata nel Qatargate e nelle vicende della famiglia Soumahoro, ma la cui fragilità era del tutto evidente già al tempo dei copiosi finanziamenti dell’Urss al Pci ed al ruolo delle cooperative comuniste nel sostegno al partito, che costituiscono il grande “buco nero” di “Mani pulite”.
Un fallimento, politico e culturale del Pd che ribadisce il primato della tradizione socialista, sia sul piano ideologico che su quello delle classi dirigenti nel nostro Paese, che deve riproporre il tema del rapporto tra la creazione di una (vera) sinistra riformista in Italia, in grado, per dirla con un comunista illuminato come Napoleone Colajanni, di “non farsi irretire dal mercato”, e la cultura e i programmi del socialismo europeo e nazionale, inclusivo e popolare, in cui potrebbero riconoscersi e convergere tutti coloro i quali credono nella costruzione di una grande casa comune della sinistra democratica in Italia, finalmente nell’alveo della socialdemocrazia.