Quando si dice che un allestimento ‘moderno’ può apparire come un ‘classico’. È l’impressione che presto si è rivelata essere preponderante lungo lo svolgersi dei Puritani visti ed ascoltati quale spettacolo di punta delle annuali celebrazioni belliniane; non Festival, per carità, non si può dire, ma Bellini International Context, secondo la terminologia adottata già da tre anni dalla Regione Siciliana e che, di fatto, rappresenta ormai la rassegna cardine delle celebrazioni belliniane; un non-Festival che cerca idealmente di ricongiungersi alla storia dei Festival belliniani a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Novecento, protagonista il Teatro Massimo Bellini: Il periodo sfarzoso ed ormai leggendario che nella memoria degli appassionati catanesi viene ricordato come ”era Busalacchi”.
Ma torniamo al presente. La sempre più sterile querelle fra gli estimatori degli allestimenti tradizionali e di quelli moderni a volte viene risolta da un ribaltamento dei termini, così la ‘modernità’ fa sempre più ricorso ai deja vu fino a creare dei modelli che diventano sempre più ‘tradizionali’. Ma non è questo il punto essenziale; ciò che conta, di volta in volta, è la coerenza di una narrazione, di una evocazione, che sia soprattutto rispettosa del pensiero dell’autore, che non ne stravolga l’idea generale. In questi Puritani la regista Chiara Muti, in team con lo scenografo Alessandro Camera, con il costumista Tommaso Lagattolla e con il light designer Vinvent Longuemare, fa ricorso all’interazione con quadri vuoti che si animano di sagome vive e grandi dipinti del visionario pittore inglese Füssli. L’Inghilterra puritana di Cromwell convive così in uno spazio onirico popolato da armigeri, da scure figure otto-novecentesche che attraversano la scena osservando i protagonisti tra cui emergono le figure femminili biancovestite. L’idea dei quadri, del museo abitato ci riporta alla mente esperienze simili realizzate su Aida, Trovatore, Traviata, perfino elementi filmici (Una notte al museo), ma per fortuna alla fine prevale il servizio alla musica e ai caratteri emozionali dei personaggi; in definitiva per Bellini è questo che conta: il contesto storico non fa che da sfondo per esaltare la vicenda amorosa di Elvira con Arturo ed un generico patriottismo che rischia di devastare gli affetti. Il coup de théâtre finale, con il volto di Bellini che irrompe sulla scena, novello deus ex machina di memore tragedia greca, ci rammenta che è la sua musica a prevalere su tutto, sempre viva e immortale.
È Elvira a riempire la scena; il suo personaggio è di una ricchezza emotiva impagabile, trascolora dalla gioia per le imminenti nozze al tradimento e all’abbandono (almeno così lei crede), alla perdita della ragione, al dolore, al rinsavimento per il ritrovato amore. Caterina Sala, giovanissimo soprano lecchese, rivela fin dal suo ingresso in scena, una capacità di entrare nel personaggio che è totale; la sua, a dispetto dell’età, non è una semplice esecuzione ma una interpretazione coinvolgente, studiata in ogni minimo dettaglio; una credibilità scenica, innanzitutto, che la rende viva, palpitante, reale; e poi il sostegno di una vocalità pregevole, ricca di sfumature, filati, mezzevoci, sicura negli abbellimenti e negli acuti; dopo aver superato splendidamente il virtuosismo della ‘polacca’ (“Son vergin vezzosa”) ha raggiunto il suo apice nella scena della follia “Qui la voce sua soave”, grazie anche ad una commovente gestualità scenica e a dispetto di uno strumento eminentemente lirico che ci auguriamo venga amministrato con oculatezza.
Accanto ad Elvira il’Arturo del russo Dmitry Korchak ha tenuto fede ad ogni aspettativa interpretando al meglio il terribile ruolo tenorile che fu pensato per il mitico Rubini. Oltretutto non si è limitato a tenere sotto controllo gli svariati sovracuti presenti nelle sue arie, nei duetti e nei concertati, ma ha sovente piegato la sua voce ad una emissione vellutata ed ammaliante (vedi l’ingresso del terzo atto “Son salvo”) ed un fraseggio con perfetta pronuncia in italiano.
Magistrale e nobile il basso Dario Russo nei panni di Giorgio mentre il baritono Christian Federici scolpiva uno stentoreo Riccardo. Andrea Tabili (Lord Gualtiero), Marco Puggioni (Sir Bruno) e Laura Verrecchia (Enrichetta) completavano l’ottimo cast.
Fabrizio Maria Carminati ha sviscerato quello che ormai può essere definito il ‘suo’ Bellini, con passione ed estrema precisione badando a mantenere costantemente in equilibrio il rapporto tra buca (con orchestra in grande spolvero) e palcoscenico. Preziosa e sempre puntuale la prova del coro istruito da Luigi petrozziello.
Applausi a scena aperta da parte di un pubblico festante accorso per ricordare, ancora una volta, il Cigno catanese nella ricorrenza canonica del 23 settembre.