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Successo al Bellini per Lucia di Lammermoor

2024-04-21 21:03

Aldo Mattina

Cronaca, Spettacoli,

Successo al Bellini per Lucia di Lammermoor

Da elogiare la lettura di Stefano Ranzani che, dal podio, ‘dettava’ i tempi mutevoli dell’azione, tra accese perorazioni dinamiche e riflessivi indugi

Con una Lucia di Lammermoor di Donizetti contrassegnata, già al suo esordio, da grande successo, il Teatro Massimo Bellini conclude la prima parte di programmazione della stagione lirica prima di ‘consegnarsi’ alla concertistica e all’estate. Lirica e balletto riprenderanno poi ad ottobre.

      Successo che suona anche come riscatto perché la precedente edizione risale ad un’epoca buia del teatro, la fine del 2013, quando il Bellini paventava addirittura la chiusura. 

      Lucia di Lammermoor fu rappresentata per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835. Appena tre giorni prima era scomparso Vincenzo Bellini, un singolare passaggio di testimone che consegnava definitivamente a Donizetti lo ‘scettro’ di compositore romantico per eccellenza; e certamente nella Lucia sono decisamente esaltati tutti i canoni del romanticismo, sia nel versante stilistico musicale sia per l’adesione ai canoni letterari. Non è certo un caso se la scelta del libretto (scritto da Salvatore Cammarano) cadde su uno dei massimi esponenti del romanticismo gotico, Walter Scott, il cui romanzo ‘The Bride of Lammermoor’ (La sposa di Lammermoor) era stato pubblicato nel 1819 e tradotto in italiano nel 1824 da Gaetano Barbieri.

      L’allestimento presentato dal Bellini proviene dal teatro Verdi di Salerno e, in tempi di feroci riadattamenti registici e scenografici e travisamenti temporali, rappresenta, al contrario, un tentativo di rievocare il clima cupo del gotico inglese, abitato da fantasmi e ambientato fra torri, castelli e cimiteri; insomma un tuffo nel romanticismo più tetro. Alfredo Troisi ha immerso la scena tra cuspidi, con un pozzo centrale simbolo del passaggio alla maledizione dell’al di là, servendosi anche di proiezioni che evocavano castelli diroccati, torri e foreste. I neri costumi rendevano ancor più truce la scena (evidenziata dalle luci di Antonio Alario) nella quale emergeva il biancore della veste nuziale di Lucia (e del fantasma da lei evocato) arrossato dal sangue del delitto. La regia di Giandomenico Vaccari ne sposava l’humus indugiando su un’insistita presenza di spettri fin troppo illustrativa.

      Quanto all’aspetto musicale non si può che elogiare la curatissima lettura di Stefano Ranzani che, dal podio, ‘dettava’ i tempi mutevoli dell’azione, tra accese perorazioni dinamiche e riflessivi indugi (da notare il rallentamento delle cabalette quale inusitato impiego espressivo ‘inventato’ da Donizetti e culminante nel sospiroso ‘tu che a Dio spirasti l’ali’, geniale ‘unicum’ finale con il quale il musicista bergamasco stupisce stravolgendo i canoni dei numeri musicali tradizionali. Magistrale l’apporto dell’orchestra stabile con gli interventi solistici delle prime parti (e non solo), dall’arpa al flauto al violoncello alla sezione degli ottoni. Prezioso anche l’intervento del coro (istruito da Luigi Petrozziello), timbricamente equilibrato nel ‘gioco’ di alternanze con l’orchestra e i solisti di canto.

      Maria Grazia Schiavo dava voce ad una Lucia assai rispettosa delle indicazioni dinamiche non disdegnando le virtuosistiche ‘colorature’ ma senza mai eccedere, forte di un ‘buongusto’ che sicuramente le proviene dalla lunga esperienza del canto barocco e classico; una interpretazione, la sua, che risulta particolarmente misurata anche tra le architetture virtuosistiche della scena della pazzia (con luminose puntature sovracute), privata però, ancora una volta dell’apporto della glassarmonica (che renderebbe più ‘lunare’ ed astratta la scena), sostituita dal consuetudinario impiego del flauto con cui duetta con una cadenza che andrebbe una volta per tutte revisionata. Peccato, perché in altri punti sono stati invece recuperati tradizionali ‘tagli’, come la scena della torre (duetto tra Edgardo ed Enrico) o come l’aria e cabaletta di Raimondo del primo atto.

     Entusiastici consensi ha riscosso l’Edgardo di Francesco Demuro, un tenore dal fraseggio elegantissimo e dai mezzi vocali generosi che gli hanno consentito una interpretazione colma di emozionante passione. Christian Federici era Enrico Ashton, il rancoroso fratello di Lucia, da lui espresso con vitalistico convincimento e con sfoggio di una brunita voce di baritono timbricamente accattivante. George Andguladze era un imponente Raimondo dalla tornita voce di basso che domina con sicurezza la scena pur esibendo un fraseggio che si distacca un po’ dal gusto del melodramma italiano. Marco Puggioni (Lord Arturo), Claudia Ceraulo (Alisa) e Nicola Pamio (Normanno) completavano con buona professionalità il novero degli interpreti vocali.

     Uno spettacolo complessivamente di ottima fattura che ha riscosso ripetuti e calorosi applausi, anche a scena aperta, da parte di un pubblico da ‘tutto esaurito’.