Inaugurazione 2024 in grande spolvero, al teatro Massimo ‘Bellini’ di Catania, per una stagione che inizia con un doveroso omaggio a Giacomo Puccini di cui ricorre quest’anno il centesimo anniversario della nascita.
In scena il testamento postumo del compositore lucchese, quella Turandot che il maestro non ebbe tempo di ultimare a causa della morte, ma anche per gli infiniti dubbi sul finale che resero lungo e doloroso il tentativo di ultimarla.
L’edizione proposta a Catania contiene diversi elementi, al tempo stesso di tradizione e di novità. Se l’allestimento riprendeva infatti la versione tradizionale tutta votata al rutilante fiabesco, realizzata dal Festival Pucciniano di Torre del Lago e Opera Nazionale Georgiana di Tbilisi (scene di Carla Tomeo e Costumi di Fausto Puglisi ripresi da Leila Fteita), per il finale si utilizzava, invece, l’edizione riscritta da Luciano Berio tra il 2001 e il 2002 in sostituzione di quello storico realizzato da Franco Alfano con i ‘tagli’ di Arturo Toscanini (che per quasi un centennio è stato sempre utilizzato).
Forse non tutti ricorderanno che il teatro Bellini fu il primo in Sicilia e tra i primi in Italia (dopo la storica ‘prima’ genovese del novembre 2003 diretta da Bruno Bartoletti) a eseguire la versione Berio, sia pure in versione concertistica, per iniziativa del direttore olandese Hubert Soudant, nel marzo del 2004, tra una recita e l’altra dell’opera col finale tradizionale, in cartellone nella stagione lirica di quell’anno. Protagonista nei panni di Calaf era il compianto Marcello Giordani affiancato dal soprano Tatiana Chivarova.
Ma torniamo al presente; La festosa accoglienza con cui il pubblico catanese ha accolto lo splendido ma un po’ scontato allestimento (in un teatro assiepato in ogni ordine di posti) ha dimostrato, ancora una volta, come certe proposte ipermoderniste, ostinatamente realizzate in ogni dove, risultino perdenti; il pensiero va inevitabilmente alla sciagurata edizione di Turandot che ha da poco inaugurato, tra i fischi, la stagione lirica del pur titolato San Carlo di Napoli. Cosicchè la regia catanese di Alfonso Signorini è apparsa, in confronto, ben più rispettosa del dettato pucciniano, mai invadente, sia pure con qualche piccolo dettaglio (ma era poi piccolo?) che non ha mancato di suscitare qualche perplessità. Era proprio necessario, nell’intento di centralizzare la figura di Liù, farle ‘suggerire’ a Calaf lo scioglimento del terzo enigma? E risulta poi congrua l’apparizione a Turandot del fantasma dell’antica principessa, dopo la morte di Liù (che resta presente ed incombente in scena), per accompagnarla al suo ‘disgelamento’, completandone il processo di umanizzazione?; ci è sembrata una interpretazione assai singolare. Per il resto la regia di Signorini si è comunque posta al servizio delle esigenze sceniche con un sempre attento posizionamento spaziale, ben equilibrato, nei confronti dei solisti e delle masse corali e coreutiche.
Una tellurica e impegnatissima orchestra, condotta assai spesso sopra le righe da Eckerard Stier ha invece creato qualche disequilibrio tra lo strumentale e i cantanti che spesso venivano quasi coperti da un torrente sonoro che creava, sì, un’entusiastica enfasi, specie nelle scene d’insieme, ma sovente metteva in difficoltà i protagonisti. Ne ha pagato le spese, per esempio, il Calaf di Angelo Villari, pur generoso di mezzi vocali ma in continua ‘competizione’ con l’orchestra; il suo elegante e lucente fraseggio lo costringeva, a volte, ad un logorante impegno nella regione più acuta che ha comunque svolto spavaldamente fino alla fine (e con un applauditissimo Nessun dorma).
Daniela Schillaci è stata una Turandot da par suo. Dopo la vittoriosa sfida belcantistica della Traviata, affrontata con grande maturità e variegata espressività, è tornata al suo prediletto ruolo di lirico-spinto interpretando una principessa senza fronzoli, a voce spiegata, superando con disinvoltura i taglienti acuti di cui è costellata la parte, sempre svettante e perentoria.
Liù era Elisa Balbo, un soprano dalle belle risorse, autorevole e credibile anche scenicamente; si è imposta sul piano vocale, pur con raffinatezza, privilegiando senza troppi fronzoli il lato umano e drammatico del personaggio, con voce piena e ben timbrata.
Acclamate, e giustamente, le tre ‘maschere’ di Ping, Pang e Pong, rispettivamente Vincenzo Taormina, Saverio Pugliese e Blagoj Nacoski, le quali rappresentano costantemente e sapidamente il filo di collegamento tra la corte pekinese e il popolo. Imponente ed autorevole il Timur di George Andguladze; Mario Bolognesi eseguiva a debita distanza, dall’alto del suo ruolo di imperatore, l’ingrato compito di Altoum mentre Tiziano Rosati era un mandarino.
Deliziosa la prova del Coro interscolastico di voci bianche Vincenzo Bellini diretto da Daniela Giambra, affiancando l’impeccabile Coro stabile del Bellini istruito da Luigi Petrozziello, con impegno a tutta voce.
La serata ha riscosso grande consenso da parte di un pubblico reiteratamente plaudente il quale ha apprezzato anche l’inusuale conclusione di Berio (sconosciuta ai più).
La raffinatissima orchestrazione del compositore di Imperia (scomparso appena un anno dopo aver concepito il nuovo finale) tende ad allontanarci dallo stile degli anni venti ma, così facendo, Berio sembra far compiere a Puccini un ulteriore balzo in avanti verso la modernità, quella modernità che proprio il capolavoro incompiuto faceva confrontare il maestro di Lucca con il linguaggio musicale del suo tempo, con Schönberg, con Mahler, perfino con Stravinskij. E poi il problema dello ‘sgelamento’ della principessa, aggirato frettolosamente da Alfano con un rapidissimo acuto sulla parola “amor” (e, d’altra parte lo stesso Puccini ci si era avvitato senza riuscire a risolverlo), viene ‘preparato’ da Berio, con un intervento in contrappunto Calaf-Turandot e successivamente sfumato nella coda orchestrale malinconica e riflessiva; ben altra suggestione rispetto alla trionfalistica e stereotipa ripresa sulle note del ‘nessun dorma’ , proposta da Alfano. Forse rimane un’interpretazione non esente da un certo intellettualismo, ma la scelta è intelligente e, in fondo, ha una sua coerenza interna che merita rispetto e, possibilmente, accettazione.