Una novella che si fa teatro, che si fa dramma, che si fa Tragedia. È ‘La Lupa’ di Giovanni Verga nella originale rilettura realizzata dal regista Gianni Scuto al teatro Fellini di Catania, con scene di ‘Teatrale Mediterranea’ e costumi di Silvia Masci. È stato anche un interessante contributo che si aggiunge alle celebrazioni, appena concluse, del centesimo anniversario dello scrittore catanese.
C’è, in questa ennesima rilettura della celebre novella/dramma di Verga, un approccio che potremmo definire multilinguistico e che fa riferimento a procedimenti classici relativi alla tragedia; e, inoltre, una confronto tra Verga e i suoi presupposti di ipotetico riferimento. Non a caso in premessa una voce narrante registrata fa riferimento all’analoga situazione presente nel mito di Fedra (da Euripide? Seneca ? D’Annunzio?, Pizzetti?) e qui scatta il modello ‘tragedia’ e i possibili linguaggi multipli. Sulla scena troviamo il personaggio della Gna’Pina che ora recita in prima persona, ora racconta, rappresentando la insana passione di se stessa, la Lupa, per Nanni Lasca, fino ad accettare le sue nozze con la figlia Maricchia, pur di avere il giovane sempre vicino nella propria casa (che cederà alla figlia insieme a tutte le sue sostanze, riservandosi un semplice giaciglio). Ma accanto a lei ci sono due costanti presenze, una donna in bianco e una in nero, in chiara commistione con i meccanismi della tragedia greca, una sorta di ‘coro’ circoscritto alle due corifee rappresentanti, emblematicamente, Eros e Thanatos, Amore e Morte. Si esprimono con una sorta di intonato recitar cantando, quasi evocando il linguaggio del Melodramma delle origini, quello nato appunto dal presupposto della tragedia greca. E qui il cerchio si chiude. Lo stesso destino lega le due ‘eroine’, entrambe possedute da incontenibile passione amorosa per due bellissimi giovani; alla fine se la prima, Fedra, deciderà di togliersi la vita, la seconda, Gna’Pina, verrà uccisa (e in maniera veristicamente violenta) con un’accetta dal suo impossibile amore.
Si rivela, insomma (almeno così mi sembra di interpretare), il pervicace attaccamento registico a moduli tipici del teatro sperimentale degli anni sessanta di cui, peraltro, Gianni Scuto è stato (e continua ad essere) indubbio protagonista.
Estremamente intensa, passionale, ricca di palpitante emozione l’interpretazione protagonistica di Jessica Ferro che alla Lupa ha restituito tutta la carica di dolente sensualità che promana dal testo verghiano. Le facevano da corona Eros e Thanatos, rispettivamente interpretate da Simona Gualtieri ed Elisa Marchese, brave e poliedriche nell’impiego di corde di recitazione sovrapposte ad intonazioni vocali che sfociano quasi nel canto.