Pochi giorni alla prima di Turandot al Teatro Massimo Bellini di Catania. Una data attesa, quella del 12 gennaio, che apre la stagione con un evento desiderato, sia per la bellezza del melodramma pucciniano, sia per la compagine tutta, che si adopera per la resa globale della rappresentazione, sia la sua protagonista, cosi amata oltre confine, e che riapproda nella sua amata città, in quel teatro caro al suo cuore e per quel pubblico che lei adora e stima ritenendolo qualitativamente preparato ed esigente. Chiude mirabilmente con Traviata, sebbene in pieno stato influenzale durante le recite, non mancando di incantare il suo pubblico conferendo alle indiscusse virtù canore, quel di più che viene dalla grande artista e donna che è, conferendo al personaggio un pathos che travalica le consuete aspettative, regalando momenti lunghi di intensa sofferenza e solitudine che muovono spesso alla commozione il pubblico, riuscendo a penetrarlo in quei desolati silenzi, dettati dalla assenza di vie d’uscita che la vita spesso ci impone. Eravamo con lei mentre col capo riverso sulla scrivania, in quella grigia atmosfera di dolore senza via d’uscita, angoscia e dramma l’assalivano. Questa la nota aggiunta che la rende artista nella pienezza del suo vigore. Ma Turandot è un’altra storia. Turandot, che ha strabiliato il pubblico di Spalato pochi mesi addietro, si ripropone a Catania con la certezza di essere nel posto giusto e nel ruolo giusto. Più giusto di tanti altri che Daniela Schillaci annovera nel suo ricco repertorio. Così appropriato e cucito addosso e lei stessa lo definisce come “casa mia, nella quale mi sento a mio agio”, e ancora “come un abito che mi è stato cucito addosso dal sarto, piuttosto che un vestito industriale”. Chiedo a Daniela perché le è così congeniale. “Mi piace il ruolo, mi piace come è scritto, e non mi fa sacrificare la lama”. Le chiedo di entrare nel dettaglio per conoscere qualcosa in più dei lei e della identità della sua voce e delle sue potenzialità timbriche naturali. “In altri ruoli è richiesta una morbidezza vocale più importante, e poiché la mia è una voce piena di squillo e di lama, quando può sfogarsi, come in questo caso, nel ruolo di Turandot , la mia caratteristica vocale naturale viene fuori al cento per cento; diversamente, in altri ruoli, entra in gioco la mia tecnica vocale costruita , che mi consente di entrare nei ruoli dei personaggi e negli stili, attraverso abilità che ho imparato in tanti anni di studio e di esperienza”. E se invece parliamo del personaggio? Quali sono le caratteristiche o le note caratteriali che ti rendono congeniale Turandot? Insomma, perché ti piace questa donna? “La vita della principessa Turandot è stata segnata dal ricordo della uccisione della sua ava, lou-ling , uccisa per amore, che va vendicata, oggi rivive in me, una storia di femminicidio insomma. Turandot nasce e cresce con la paura dell’amore. Il suo gelo, nonostante sia giovane nasce da questo. Dunque il tema di Turandot a me sembra un tema più che attuale e in questi tempi così complessi non è improbabile aver paura dell’amore. Quindi non è difficile sentirsi vicina a questo personaggio che poi si scioglie davanti ad un uomo, il principe Calaf, che è pronto a sacrificare la sua vita per lei”. -Lei ha accumulato dentro di sé tanto rancore e rabbia da farla essere la donna più crudele e sanguinaria della Cina. Certo, potrebbe apparire come la vendicatrice di tutti i femminicidi, per la crudeltà e l’efferatezza con cui si accanisce nei confronti dei suoi pretendenti. Ma subito mi si precisa che si tratta di una fiaba. –Tuttavia, avendo interpretato molti ruoli in cui il femminicidio è trattato, come Traviata , Carmen, Butterfly, che sono femminicidi morali, finalmente Turandot, riscatta un po' le donne. E mi piace! Per una volta è lei che ghigliottina gli uomini (quando i pretendenti hanno le risposte agli indovinelli da lei proposti ). Il principe Calaf indovina ma lei ugualmente si rifiuta e dice al padre: O padre augusto, tu non mi puoi dare come una schiava a quest’uomo, io che sono tua figlia, e sono sacra, non puoi darmi a lui come una schiava morente di vergogna. Dunque Turandot ha un grande rispetto di se stessa che non acconsente di essere data senza aver potuto scegliere. L’imposizione, anche se pattuita è per lei intollerabile. Quindi una donna che non accetta di non essere protagonista delle sue scelte. “Ma nel terzo atto è lei a mettere tutti sotto torchio per scoprire l’enigma che stavolta è Calef a proporre, cioè scoprire il suo nome. E qui, invece un altro genere di donna che a me non piace, Liù. Lei, si suicida poiché, conoscendo lei il nome ed essendo di Calef, di cui è innamorata, sol perché un giorno nella reggia lui le sorrise. Ecco due tipologie di donna a confronto: una guerriera e una senza testa. Insopportabile!” Torniamo a Turandot, tiriamo fuori e definiamo quella forza che in lei ti sembra di carattere e degna di stima. “Si, ti dirò che riconosco in Turandot quella paura che molte donne oggi sentono, dal momento che i femminicidi sono all’ordine del giorno, e come donna mi sento parte lesa, mi sento di poter essere in Turandot quella che in qualche modo fa giustizia e capovolge la situazione. Come già detto, con Turandot, ghigliottino quella parte di uomo assassino”.