Operazione interessante e, in linea di principio, assai meritoria quella del Teatro Massimo Bellini, che ha portato all’allestimento di due opere in un atto del compositore milanese Marco Tutino: la prima, datata 1990, è ‘tratta’ dalla novella “La Lupa” di Giovanni Verga, la seconda addirittura in prima esecuzione assoluta poiché proprio commissionata per l’occasione, ‘tratta’ (o meglio ‘liberamente tratta’) da “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello. L’intento dichiarato dell’Ente etneo è stato quello di rendere “un doppio omaggio in musica a due illustri figli della Sicilia, entrambi giganti della letteratura […] per esaltare e veicolare le proprie radici”. Intento riuscito? Proviamo a fare qualche riflessione. Non si tratta, evidentemente, di vedere solo se le due opere siano rimaste fedeli in senso stretto ai due testi letterari; il melodramma ha delle esigenze che differiscono dai generi letterari cui si riferiscono, ma stravolgere completamente non tanto e non solo le vicende, per affermare temi e tesi del tutto diversi, non è detto che possa rappresentare un ‘omaggio’ a Verga e a Pirandello, né tantomeno alla cultura e all’identità della terra di Sicilia.
Partiamo dalla ‘Lupa’: La scena iniziale si svolge in un garage addobbato a festa di una metropoli del nord Italia degli anni Sessanta, dove un gruppo di poliziotti sta passando la serata in compagnia di amici ed amiche. Nanni Lasca è già fidanzato con Mara ma la madre di quest’ultima, da tutti chiamata la Lupa, non ha alcuna remora nel provocare il giovane; dopo aver ballato sulle note di un disco di Peppino Di Capri, mentre gli ospiti vanno via i due cedono ad una irrefrenabile passione. Il secondo quadro si svolge nella trattoria che la Lupa ha donato a Nanni Lasca e sua figlia; sono trascorsi tre anni e i due giovani si sono sposati ed hanno una figlia di tre anni; è Natale. Ma ecco riapparire la Lupa che dopo anni di assenza non è più riuscita a contenere la passione per Nanni e quest’ultimo, per evitare di cedere ancora, la accoltella. Almeno è questo che prevede il testo del libretto scritto da Giuseppe Di Leva. Il regista Davide Livermore, però, ci presenta una soluzione diversa (evidentemente d’intesa con l’autore): non è la Lupa ad essere uccisa bensì Nanni Lasca a suicidarsi (sotto gli occhi della moglie Mara) o forse, chissà, è tutto un sogno o un’allucinazione di lui! In tutti i casi appaiono d’improvviso sulla scena una serie di scarpe rosse; il manifesto contro il femminicidio è lanciato.
Tutto appare scarnificato e ridotto all’essenziale; d’altra parte si tratta di un unico atto; c’è la musica che pensa a dare sostanza e coesione con un linguaggio che esalta l’immediatezza percettiva, sostanzialmente tonale con un melodizzare che accoglie anche suggerimenti al limite fra pop e colonne sonore.
L’attesa maggiore, è inutile negarlo, era per la seconda parte della serata, riservata all’opera ‘nuova’, a quel “Berretto a sonagli” che va annoverata tra i massimi capolavori teatrali di Luigi Pirandello e dell’intero Novecento. Ce lo ricordavano, tra l’altro, le immagini d’archivio posizionate all’ingresso del teatro raffiguranti la magistrale interpretazione di Turi Ferro (unitamente a quella della Lupa) per le gloriose stagioni di prosa del Teatro Stabile di Catania.
Per il lavoro pirandelliano era decisamente più consono il ‘liberamente tratto’ suggerito dallo stesso Tutino, perché dello spirito e della visione del girgentano restava veramente solo un vago riflesso; è proprio qualcosa d’altro. Il librettista Fabio Ceresa, infatti, pur ambientando la vicenda nella Sicilia del 1924 (solo qualche anno, quindi, rispetto all’originale del 1917) modifica del tutto il quadro complessivo della vicenda e le caratteristiche dei personaggi. Lo scrivano Ciampa, qui, diventa il capomafia del paese, di quella organizzazione chiamata ‘Cosa nostra’ e rivelata con tale denominazione dal pentito Tommaso Buscetta nel 1984! La storia di Beatrice Fiorica, risoluta a denunciare il marito per tradimento con la moglie di Ciampa viene spostata interamente sulla ‘rivelazione’ che quest’ultimo, con i suoi traffici mafiosi, tiene in pugno l’intero paese (comprese le forze dell’ordine rappresentate dal delegato Spanò); Beatrice preferisce essere giudicata una ‘pazza’ pur di salvaguardare la propria dignità, gridando davanti a tutti la verità. La sua presa di posizione la accomunerà, nella visione di Ceresa, Tutino e Livermore, a tutte le donne vittime di mafia, i cui nomi vengono proiettati, nella scena finale, in un grande tabellone sul fondale della scena. L’omaggio a Pirandello e alla Sicilia (come prima quello a Verga) è servito! Certo non era proprio essenziale servirsi dell’opera degli scrittori siciliani (e del titolo delle loro opere sulle locandine) per realizzare l’ennesimo manifesto sulla violenza di genere e sulla lotta alla criminalità mafiosa (attingendo al solito scontato clichè Sicilia=Mafia). Non che il tema non sia di grande valore civile e morale, ma perché andare a ricavarlo tra le pagine della letteratura di Verga e Pirandello? Magari in un prossimo futuro si potrebbero riscoprire, per ridare centralità a Pirandello, opere poco o nulla rappresentate come “La nuova colonia” del catanese Alfredo Sangiorgi del 1952 o “La favola del figlio cambiato” di Gian Francesco Malipiero del 1934.
Al di là di queste riflessioni, assolutamente personali, è comunque doveroso tornare su ciò a cui abbiamo assistito, i cui frutti denotano un grande sforzo produttivo ed un ammirevole impegno da parte di tutti gli artisti (e i tecnici) che hanno contribuito a realizzare un allestimento teatrale di grande spessore. Non si trovano tutti i giorni cantanti disposti a scommettersi su opere nuove che richiedono tanto studio e abnegazione sia sul piano vocale sia su quello dell’interpretazione drammaturgica. Nino Surguladze, Irina Lungu, e Sergio Escobar sono stati splendidi interpreti della Lupa, credibili ed appassionati scenicamente, generosi in punto vocale, accanto a loro hanno ben figurato Vittorio Vitelli, Giuliana Di Stefano, Mariam Baratashvili, Pietro Picone, Marco Puggioni ed Enrico Marrucci. Nel Berretto a sonagli ai tre interpreti principali della Lupa si aggiungeva l’autorevole Ciampa di Alberto Gazale e, ancora, Anna Pennisi e Rocco Cavalluzzi.
Per quanto riguarda l’aspetto strumentale non si può che lodare l’attento lavoro di concertazione e direzione d’orchestra di Fabrizio Maria Carminati. Un compito certamente non facile e sicuramente faticoso che lo ha condotto a ricavare dalla magnifica orchestra stabile etnea il meglio possibile per rispondere ad una scrittura dal grande spessore sinfonico (con una grande evidenza del settore percussivo) ma continuamente piegata ad attenzioni liriche che richiedevano capacità di trasparenza. È straordinario, fra l’altro, rilevare come lo stile di Marco Tutino rimanga sostanzialmente sempre fedele a sé stesso, non immutato, certo, ma senza stravolgimenti.
Il regista Davide Livermore ha realizzato, insieme al suo collaudato staff, un allestimento di grande eleganza (sue le scene insieme ad Eleonora Peronetti con i costumi di Mariana Fracasso), su cui riveste particolare suggestione la parte visuale realizzata con Scenografie digitali D-Wok e il determinante apporto delle luci di Gaetano La Mela. Ne risulta uno spettacolo sontuoso e al tempo stesso onirico come ci ha ampiamente abituato il regista torinese nel corso del suo lavoro.
Pubblico da tutto esaurito che ha risposto con buona e attenta partecipazione.
Un plauso, infine, per il ritrovato libretto di sala, congruo e ricco di preziosi interventi, mai tanto opportuno come in questo caso, e un grazie alla determinazione di Caterina Andò (Responsabile Comunicazione e Ufficio Stampa) che lo ha fortemente ‘inseguito’. Speriamo si continui su questa strada.