Possono i personaggi mitici della tragedia greca ispirare, ancora oggi, nuovi testi teatrali intrisi di passione? A giudicare dalla rilettura di Clitennestra operata da Roberto Andò sul romanzo dell’irlandese Colm Tóibín ‘La casa dei nomi’, sembra proprio di sì e, addirittura, ci si può spingere anche oltre con una rappresentazione terrificante e spiazzante che ‘umanizza’ in senso realistico le vicende della mitologia greca privandole dalla presenza degli Dei. È ciò cui abbiamo assistito nel secondo spettacolo teatrale della stagione di prosa dello Stabile catanese al teatro Verga.
Ancora una trasposizione quindi, dalla scrittura letteraria alla drammaturgia teatrale, quella operata da Andò, sulla recentissima pubblicazione in traduzione italiana del romanzo di Tóibín, scrittore, critico letterario e giornalista irlandese di grande visibilità internazionale.
Il nucleo centrale della vicenda ruota intorno al celebre episodio del sacrificio di Ifigenia, figlia primogenita del re di Micene Agamennone e di sua moglie Clitennestra, raccontato da Euripide nella ‘Ifigenia in Aulide’; al momento del sacrificio, però, Tóibín si rifà all’Orestea di Eschilo. Se, infatti, Euripide ricorre all’inganno di Artemide per salvare Ifigenia, sostituendola all’insaputa di tutti con una cerva, Eschilo fa compiere il sacrificio fino in fondo, anzi con la consapevolezza ed accettazione della giovane dopo l’iniziale sgomento. Nell’allestimento di Andò proprio la morte è il centro nodale di tutta l’opera e Ifigenia muore urlando fra indicibili tormenti. La scena di Gianni Carluccio (come pure le luci), peraltro, riproduce uno squallido scenario atemporale, lugubre e ‘mobile’ che ricorda un parcheggio d’auto sotterraneo circondato da loculi che accolgono, insieme, gli altri personaggi, il coro e le anime dei morti; i costumi di Daniela Cernigliaro, opportunamente a-temporali, trasmigrano dall’iniziale prevalenza di nero e tinte uniche alla finale lucentezza del bianco che accomuna viventi e figure di trapassati.
Protagonista assoluta è Clitennestra, una Isabella Ragonese tragica ma determinata (dapprima a difendere inutilmente la figlia, poi ad uccidere il marito Agamennone, legandosi ad Egisto), strepitosa nella recitazione e nella gestualità; la sua interpretazione e la sua presenza scenica sono decisamente da attrice tragica d’altri tempi! Una Clitennestra che Tóibín e Andò cercano in parte di riscattare dall’orrido appellativo di ‘mostruosa assassina’ in nome di un giustificazionismo vendicativo tutto carne e sangue.
Andò non sfugge, in nome forse di un modernismo che non ha bisogno di essere esplicitato, al ‘solito’ melting pot linguistico-razziale tanto in voga oggi (ma aggiunge forse chiarezza alla comprensione della vicenda o ingenera moda e caos?): Egisto, interpretato da Federico Lima Roque, appare come uno straniero dall’incerto linguaggio, si ode una straziante preghiera in lingua inglese, una corifea adopera addirittura il siciliano; ed anche le musiche (di Pasquale Scialò con i suoni di Hubert Westkemper) alternano austeri momenti corali a schegge elettroniche con, in più, una sfrenata danza techno da baccanti in discoteca (coreografie di Luna Cenere). Tutto crea suggestione, senza dubbio, con un avvolgente afrore di morte incombente da cui non c’è possibilità di elevarsi, neppure ricorrendo all’aiuto di assenti divinità.
La trepida e umanissima figura di Ifigenia è interpretata con dignitosa credibilità da Arianna Becheroni, a contrasto con l’invasata Elettra di Anita Serafini. Granitica e falsa la possanza dell’Agamennone di Ivan Alovisio, colto nella sua nudità tra i lavacri della vasca da bagno che si trasformerà nel luogo della sua uccisione. Denis Fasolo veste i panni di un dubbioso e inconcludente Achille mentre a Cristina Parku è affidato il ruolo di una disperata Cassandra. Luca De Santis, Paolo Rosini e Antonio Turco costituiscono un articolato coro.
La produzione è del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival. Uno spettacolo che rimane comunque scolpito nella mente e nelle carni, sconfortante nel suo dominio di morte che non lascia speranza alcuna per una umanità desolata.