Ogni anno, il 16 giugno , a Zurigo e in varie città del mondo si celebra la festa Bloomsday (il giorno di Bloom, protagonista dell’Ulysses di James Joyce). La data si riferisce alla giornata nel corso della quale si svolge interamente l’Ulisse. In questo stesso giorno a Kingsthorpe, in Inghilterra (dove è sepolta), il Bloomsday ricorda anche la figlia italiana di Joyce, Lucia, con letture e rappresentazioni che vengono effettuate presso la sua tomba. Le ceneri del padre e celebre scrittore irlandese sono state invece tumulate a Zurigo (ultima dimora di Joyce), insieme a quelle della moglie Nora, del figlio George e della nuora Asta Osterwalder Joyce.
Da questo intreccio familiare prende spunto il lavoro di Elio Gimbo che ha inaugurato la stagione estiva 2023 di ‘Fabbricateatro’. “Nel nome del padre” si addentra appunto a scrutare i tormentati rapporti familiari fra Lucia Joyce, il padre James e la madre Nora.
Protagonista è proprio Lucia Joyce, interpretata da una umanissima e dolente Sabrina Tellico; al centro della scena (realizzata da Bernardo Perrone con le luci di Simone Raimondo)) campeggia una grande lapide che riporta i nomi dei suoi familiari, ma non il suo! Mi avete dimenticata, grida straziata Lucia; un chiaro riferimento all’abbandono subito dentro un manicomio voluto dal fratello e dalla madre che non l’avevano mai accettata. Con l’apparizione dei fantasmi delle figure genitoriali, iniziano una serie di dialoghi impossibili, un onirico rivissuto che ci svela il complesso rapporto di Lucia sia con la madre, protagonista di un rifiuto genitoriale colmo di gelosia, sia con il padre cui restò sempre legatissima, in un intreccio fatto di amore, di identificazione nel pensiero e nell’arte, ma sempre frustrata dalla mancata realizzazione, nella propria vita, della sua potenziale, grande attitudine per la danza; ma anche per le delusioni d’amore culminate nel rapporto non corrisposto con il giovane drammaturgo Samuel Beckett (più interessato alla propria realizzazione professionale che lo aveva condotto ad essere accolto come assistente da papà James). La mente di Lucia cominciò a vacillare e la ragazza non si riprese più, nonostante i tentativi di aiuto del padre che la condusse, in cura, dal grande Carl Gustav Jung. Fu un fallimento, il grande psicanalista la liquidò in poco tempo con giudizio inappellabile; rivolto alla ragazza affermò, infatti: “I manicomi sono pieni di ragazze troppo legate ai padri se non innamorate di loro, bisogna a tutti i costi strapparti dall’orbita di tuo padre al quale sei unita da una relazione inestricabile di sessualità repressa e consonanza artistica. Tuo padre sfrutta l’oscurità della tua mente per il suo lavoro creativo”. Ed al padre che decise infine di sottrarre la figlia alle sue ‘cure’ affermando che “Lucia ed io nuotiamo nella stessa acqua” Jung replicò lapidario : “Si, ma lei sta affogando” confermando la sua impietosa diagnosi di Schzofrenia.
La drammaturgia di Elio Gimbo, il quale ha condotto con sapiente equilibrio registico la piece, attinge ad una ricercata documentazione (suggestivo anche l’ascolto in audio, ad inizio dello spettacolo, della voce originale di James Joyce, riprodotta da una rara registrazione), arricchita da estratti di opere di Virginia Woolf, Thomas Stearns Eliot e Sibilla Aleramo.
Accanto alla magistrale e camaleontica Tellico, agivano sulla scena Barbara Cracchiolo, nei panni di Nora Barnacle Joyce, scolpita nella sua austera intransigenza non priva di momenti di partecipazione emotiva, e Giovanni Calabretta, il quale tratteggiava un vecchio e sofferente James Joyce, non privo di quel pizzico di follia “che tutti gli artisti di genio hanno”.
Alla fine della “immersione nei mondi della famiglia Joyce” ancora ci si chiede a quanto di ‘vero’ abbiamo assistito perché in fondo, come afferma lo stesso personaggio-Joyce, “La vita è un sogno da cui ci si sveglia morendo”.