Sei anni fa il Messiah di Händel tornava al Teatro Bellini di Catania dopo un’assenza di oltre sessant’anni; era il Venerdì Santo del 2017. Per le celebrazioni pasquali di quest’anno l’ente etneo ha ripreso nuovamente quello che può essere considerato il massimo capolavoro oratoriale di Georg Friedrich Händel, proponendolo ancora una volta, con scelta assolutamente opportuna, proprio il Venerdì Santo (ed in replica l’indomani), affidandolo ad un direttore tedesco assai carismatico e profondo conoscitore (a giudicare dagli esiti della concertazione) del musicista di Halle. È stato un cimento particolarmente impegnativo, specie per il coro alle prese, oltretutto, con una lingua non sua quale l’inglese.
Non da meno è stato anche l’impegno dei professori d’orchestra i quali hanno dimostrato, ancora una volta, l’estrema versatilità di cui sono capaci, ora alle prese con il melodramma sette-ottocentesco, ora con il repertorio sinfonico, ora (ed era il caso in questione) con la magnificenza del Barocco fiorito, brillante, spettacolare ma colmo di fervore religioso del maestro tedesco dalla formazione anche italiana oltre che inglese per acquisizione, Händel appunto.
Il monumentale Oratorio in tre parti, per soli, coro e orchestra, eseguito non proprio nella sua integrità ma con qualche taglio che ne ha contenuto la durata, descrive come in una grande sacra rappresentazione senza scene (forma oratoriale, per definizione) il dramma della nascita, morte e trionfo finale di Cristo. Händel lo compose nel 1742, su libretto di Charles Jennens (membro ortodosso della Church of England, in supporto della Chiesa Ortodossa Anglicana che proprio in quegli anni combatteva la sua ‘battaglia teologica’ contro il “deismo”, una credenza basata sulla ragione naturale che si affidava a Dio come prima causa, creatore e ordinatore dell’Universo, ma negava la Rivelazione, le profezie bibliche, i miracoli, la legge di Mosè.
Ne è risultato uno spettacolo riflessivo e pregnante che ha messo in luce tutta la sapienza costruttiva del compositore di Halle, l’altro ‘dioscuro’ del Settecento barocco, insieme al sommo Bach, con il quale condivide l’apice del miracolo musicale, le stupende strutture armoniche, la mirabile arte del contrappunto e della fuga, sia pure con caratteri radicalmente diversi sul piano emotivo-espressivo, tutto rivolto com’era a trasformare la preghiera in inno celebrativo, la meditazione in esaltazione di popolo oltre che manifestazione del potere politico. La conduzione di Marcus Bosch è stata un trionfo di colori, denotando anche un’attenta lettura degli stilemi barocchi (alternanza di piano e forte, massima accuratezza della dinamica…) trasmessi alla pronta risposta degli strumenti (magnifico, ad esempio, l’intervento solistico della prima tromba Mario Musumarra in accompagnamento dell’aria del basso “The Trumpet shall sound”) mentre il coro, istruito con la solita sapienza da Luigi Petrozziello, ha elevato in eterea luce le levigate architetture contrappuntistiche impregnandole di un dinamismo ed una corporeità tutta umana perché è l’uomo, nella visione di Händel, il protagonista cui l’Altissimo consegna il mondo e la diffusione della fede.
Molto attenti a seguire il dettato del direttore erano i quattro solisti di canto, il soprano Elisa Verzier, dalla voce luminosa ed il fraseggio elegante, il tenore Pietro Adaini alle prese con i lunghi vocalizzi che l’impietosa parte richiede, il mezzosoprano Ilaria Ribezzi ed il baritono Cristian Senn che hanno dovuto superare la difficoltà di eseguire due parti scritte per voci più scure (contralto e basso).
Il pubblico presente alla serata, impegnativa, sì, ma colma di perle di bellezza che colpiscono nell’intimo, non ha lesinato lunghi e ripetuti applausi. Alla fine non poteva mancare, come bis, la ripetizione del celeberrimo Hallelujah.