Il 20 novembre 1989 moriva a Palermo Leonardo Sciascia (di cui ricorreva due anni fa il centenario della nascita). Proprio lo stesso giorno della scomparsa giungeva in libreria il suo ultimo romanzo breve, “Una storia semplice”. Il Teatro Stabile di Catania ha voluto dedicare quest’anno un ‘Progetto Sciascia’ allo scrittore di Racalmuto, quattro particolari messe in scena programmate nella Sala Futura. A queste è stato aggiunto un ulteriore titolo nella stagione principale, quella del Verga, con “Una storia semplice”, appunto, affidandone l’adattamento teatrale al regista Giovanni Anfuso.
La vicenda della ‘storia semplice’ sembra essere il paradigma finale delle riflessioni sociali e letterarie di Sciascia; un omicidio che tutti vogliono far passare come suicidio, dal Commissario di polizia al Questore, dal Magistrato al Colonnello dei carabinieri, al Parroco. Solo un anonimo e ‘piccolo’ Brigadiere si ostina a cercare la verità (guidato anche dai ragionamenti del professor Franzò, alter ego dello stesso autore). Nel piccolo paese di provincia in cui si sviluppa la narrazione si respirano, sotterraneamente, gli interessi della mafia (che Sciascia evita accuratamente) di nominare e le collusioni con varie autorità; si capisce che ci sia traffico di droga, ma senza che lo si nomini mai, mentre non è secondario il riferimento al furto, reale, del celebre dipinto del Caravaggio “Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, mai ritrovato.
Quasi un epitaffio, dicevamo, e non ci sembra un caso che Giovanni Anfuso abbia voluto suggellare lo spettacolo, in chiusura, facendo riportare dal protagonista Giuseppe Pambieri la reale frase apposta come epitaffio nella tomba dello scrittore, a futura memoria e per sua stessa scelta e volontà: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” (Villiers de l’Isle-Adam).
Ma veniamo alla messa in scena. Purtroppo ci sembra che il romanzo sia rimasto…un romanzo. Quello che francamente manca alla rappresentazione teatrale è proprio l’elemento drammaturgico. La compagnia, beninteso ce la mette tutta, guidata da un Giuseppe Pambieri che giganteggia fra tutti, ma la parola resta quella narrata con l’aggravante che ogni interprete si auto-presenta in terza persona mantenendo una struttura narrativa che non riesce mai a diventare dramma, teatro. In fondo rimane una sorta di lettura del testo affidata ai vari protagonisti che non riescono a ‘vivere’ sulla scena. Quando cercano di farlo accentuano un aspetto fin troppo caricaturale e farsesco che non rende giustizia alla sottile ironia dell’autore. Altro ‘ingombrante’ dettaglio il sovrapporsi della musica (di Paolo Daniele) e dei suoni alla parola con una funzione più di disturbo che di supporto. Nulla da eccepire sulla buona partecipazione attoriale di Paolo Giovannucci e Stefano Messina, che affiancavano Pambieri, come peraltro di Davide Sbrogò, Liliana Randi, Carlo Lizzani, Geppi Di Stasio, Marcello Montalto, Luigi Nicotra e Giovanni Carpani.
Produzione del Teatro Stabile di Catania con scene di Alessandro Chiti, costumi di Isabella Rizza e luci di Pietro Sperduti; Cooperativa Attori & Tecnici Roma.