Dedicato alla memoria di Gianluigi Gelmetti, il grande direttore d’orchestra che fu apprezzatissimo Direttore Principale Ospite del ‘Bellini’, è tornato a risuonare, dopo molti anni di assenza, per la stagione concertistica del teatro etneo, il Requiem di Verdi sotto la guida del nuovo Direttore Principale Ospite, Eckehard Stier, tedesco di Dresda che proprio qualche settimana addietro aveva diretto il Concerto di Capodanno.
Il capolavoro sacro del Maestro di Busseto fu composto nel 1874, dedicato ad Alessandro Manzoni ed eseguito il 22 maggio, ad un anno dalla scomparsa del grande scrittore, nella chiesa di San Marco a Milano diretto dallo stesso Verdi. Senza dubbio si tratta della più potente espressione che un musicista ‘laico’ come Verdi potesse esprimere di fronte al mistero della morte accompagnando l’uomo nel suo cammino terreno tra i dubbi della fede e la mancanza di certezze, alla ricerca di un significato che rimarrà irrimediabilmente senza risposte. Un uomo solo di fronte al cosmo, abbandonato a se stesso, senza alcuna certezza ma che non piega la testa.
La lettura di Stier tende ad esaltare la potente scrittura strumentale amplificandone il volume, sia nei tratti apocalittici del Dies irae, sia nel conclusivo e perorante Libera me, con il suo lancinante fugato palestriniano spezzato dalle angeliche e inquietanti frasi del soprano che si spengono in uno sconforto senza risposta e senza assoluzione. Durante tutta l’esecuzione si assiste ad una minuziosa analisi delle più recondite alternanze timbriche e ritmiche. L’orchestra ed il coro (istruito da Luigi Petrozziello) ne seguono magistralmente le intenzioni senza alcuna sbavatura dimostrandosi in perfetta sintonia. Nella disposizione dell’orchestra risaltavano alcune felici scelte come quella di porre le trombe, al momento del ‘Tuba mirum’, in due palchi contrapposti con evidente amplificazione delle sonorità (veniva da pensare ai cori spezzati di veneziana memoria rinascimentale).
Anche le quattro voci soliste erano particolarmente coinvolte e ‘calate’ nella realizzazione del ‘tutto’. Il soprano Leyla Martinucci (figlia del mai dimenticato tenore Nicola Martinucci,; quando ‘buon sangue’ non mente) ha dato prova di grande compenetrazione, specie nel terribile ‘Libera me’ conclusivo che costringe l’interprete in una scala che va dal contraltile alle taglienti ed improvvise note acute fino alle più delicate filature e mezzevoci; il mezzosoprano Alessandra Volpe accompagna con intensa e impietosa presenza l’intera partitura superando una vera e propria sfida: nobile e autorevole l’intervento del basso Ramaz Chikviladze, dalla voce possente e timbrata, sempre estremamente controllata; il tenore Samuele Simoncini esprimeva una vocalità generosa dalla timbratura ampia e luminosa anche se non priva di screziature dettate forse da un’eccessiva enfasi.
Teatro felicemente pieno in ogni ordine di posti e pubblico che non ha lesinato gli applausi.
Da sottolineare, purtroppo, l’ormai fisiologico permanere di telefonini con le lucette accese, vuoi per carpire qualche foto (che sarebbe vietata) vuoi quale distrazione di chi non è particolarmente interessato al concerto; e qualche fastidiosa chiamata non manca mai. Lanciamo inoltre l’ennesimo appello: quando torneranno i libretti di sala? Non riteniamo che un semplice foglietto sia particolarmente dignitoso per un teatro di prestigio come il Bellini.