Un altro libro di Sebastiano Ardita, Procuratore della Repubblica aggiunto a Catania e componente della Direzione Distrettuale Antimafia, raffinato e colto scrittore.
Questa volta però non si tratta di un saggio che racconta, con dovizia di particolari e grande coraggio di denuncia, fatti ed accadimenti di mafia, criminalità e terrorismo, nonché i lori pericolosi intrecci con pezzi della vita politica, sociale ed economica del Paese.
Si tratta invece di un romanzo, dunque di una storia che si snoda lungo una trama avvincente e appassionante che vede diversi attori in campo, a partire dalla protagonista principale, la giovane studentessa universitaria Stella Albano. Di lei l’autore descrive bene un’infanzia e un’adolescenza vissute in modo doloroso; il travaglio interiore ben rappresentato con la metafora della “bestiolina” in testa; il percorso psicologico non lineare tra tormento e redenzione; l’ideale ricerca di un mondo più giusto; il suo ondivagare tra luoghi della moralità (il bene e il male) e luoghi fisici (Roma, Trento e la Calabria).
Se probabilmente l’intento iniziale di Sebastiano Ardita era quello di raccontare, sempre attraverso il genere narrativo in prosa, una storia dolorosa di agenti di custodia impegnati sul fronte, di “carcerati” rivoltosi e detenuti più “saggi”, di case di reclusione in subbuglio, di connessioni pericolose fra le celle di un istituto penitenziario e il mondo criminale esterno dominato dai personaggi di sempre; invece la storia che ne viene fuori è completamente diversa, un racconto forte ed intenso ma contestualizzato temporalmente in una delle pagine più drammatiche dell’Italia del dopoguerra, ovvero gli “anni di piombo” (anni Ottanta) della lotta del terrorismo contro lo Stato.
La storia si snoda lungo la direttrice più classica, quella sentimentale, dell’amore che nasce e si rafforza tra due giovani, una donna e un uomo, Stella e Domenico, dal carattere e dal temperamento contrapposti, dalle vite completamente diverse; la storia di due poli di segno diverso che si attraggono e si cercano (forse ed anche) in nome di una medesima etica dell’integrità, ma interpretata dai due diversamente: in un caso come convinta adesione ai valori e agli ideali della giustizia sociale, nell’altro come obbedienza e senso del dovere, quasi conformistici, verso le istituzioni della società, la famiglia e lo Stato.
Una integrità dei due personaggi che inizialmente e strada facendo non sembra ammettere alcun accomodamento verso il basso, ma che finisce invece per accettare un compromesso verso l’alto, cioè la reciproca concessione resa possibile dai sentimenti forti, dalle emozioni e dall’amore vero, dal desiderio dell’una di prendersi cura dell’altro e viceversa. Il “coraggio del male”, si intitola così il primo romanzo di Sebastiano Ardita, pubblicato da Bonfirraro Editore, è un libro che si legge tutto d’un fiato, tant’è trascinante e coinvolgente. Prende il lettore subito e lo incuriosisce fin dalle prime pagine, da quando il consigliere Corsetti fa il suo arrivo alla direzione dell’Ufficio Detenuti, accolto dal maresciallo Murru, e da lì prende il via la storia che coinvolge diversi personaggi. E che tiene col fiato sospeso il lettore, fino all’ultima pagina in cui anche chi legge è come se avvertisse nell’aria la fragranza delicata ed intensa, il profumo di un’essenza al muschio.
Il titolo del romanzo evoca l’agire di cuore (il “cuoraggio” direbbe qualcuno) che, nella galleria dei soggetti rappresentati e descritti puntualmente dall’autore, costituisce sempre una motivazione intensa, percepita come alta o giusta. Ci vuole infatti coraggio a far del male, financo a farsi del male, soprattutto se in alcuni dei personaggi descritti esso non è una mancanza di bene (una privazione dell’essere, in senso platoniano), ma costituisce piuttosto un sistema valoriale, permettendo a chi detiene il potere di compiere il male sentendosi più che giustificato. Nel romanzo del Procuratore Ardita, questa riflessione che tira in ballo etica soggettiva e filosofia morale, raffrontandole costantemente con i principi di legalità, si articola pure intorno a situazioni in cui il male è commesso da certi personaggi in nome di valori soggettivi o di una giusta causa.
Un po’ come accade nella “banalità del male” dell’omonimo libro di Hannah Arendt, in cui individui ordinari compiono, nella routine e nella conformità quotidiane, azioni malvagie, provocando tanto male ad alcuni e disseminandone ulteriore ad altri anche in modo gratuito e senza una ragione, semplicemente obbedendo ad ordini autoritari, senza mai una riflessione critica sulle conseguenze morali delle loro azioni.
Alla fine, però a prevalere è il bene. “Il vero coraggio non è temere il male – riporta nell’ultima di copertina l’autore – ma affrontarlo quando sembra invincibile”.