Da tre anni circuita, con immutato interesse e successo, un lavoro teatrale nato nel 2005 e rimasto accantonato per qualche anno. Rappresenta probabilmente la maggiore fatica del poliedrico autore-regista ed attore catanese Emanuele Puglia. Stiamo parlando di “Si chiamava Gesù”, approdato nella suggestiva corte del Castello Ursino nell’ambito dell’estate catanese.
E’ uno spettacolo composito, non sai bene se definirlo teatrale, musicale, poetico o riflessivo; probabilmente è un po’ di tutto ciò. Lo si evince già dalle matrici cui Emanuele Puglia ha attinto: L’album “la buona novella” di Fabrizio De Andrè e “Gesù figlio dell’uomo” del poeta, pittore e filosofo libanese, emigrato in America, Kahlil Gibran (autore, fra l’altro, dell’ancor più celebre “Il Profeta”).
Ma Puglia non si è limitato a collazionare brani che per la loro diversa natura potevano causare anche contraddizioni ed, in ultima analisi, fornire materiale per realizzare una sorta di Musical, oggi tanto di moda. E’ andato ben oltre costruendo un percorso personale e coerente fino a mostrare e teatralizzare una visione struggente, poetica ed anche disincantata della figura di Gesù. Un Gesù estremamente umano ma portatore di un messaggio universale di spiritualità e di amore, attraverso le ‘testimonianze’ dei personaggi presenti sia in De Andrè sia in Gibran.
Gibran inventa una corale massa di voci-personaggi (ben 77) alternando quelle di nemici e discepoli, personaggi reali (Maria, Ponzio Pilato, Giuda…) ed altri di sua invenzione (Il logico, il filosofo, Susanna…); tutti evocano la figura del Figlio di Dio a partire da loro stessi, sottolineandone, più che la mansuetudine, la forza, il vigore, la ribellione alla lettera della legge. Per Gibran Gesù è soprattutto “il figlio dell’uomo e rappresenta il compimento e la realizzazione di ogni singolo uomo: la libertà, la pienezza, la passione dell’essere” (Isabella Farinelia).
La suggestione di De Andrè, invece, poggia sul doppio binario della musica e della parola, la sua è una visione laica ma non meno ricca di tensioni emotive e, pur nell’apparente provocazione, perfino etica.
Il merito di Emanuele Puglia è stato quello di riuscire a fondere, nel suo ‘racconto’, le diverse anime delle due ‘fonti’ con un lieve intervento testuale che li cuciva senza increspature e senza tentare (per la parte musicale) di ‘imitare’ De Andrè, bensì esaltandone la chiarezza espositiva. Una prova attoriale e canora che Emanuele Puglia ha condiviso Con Carmela Buffa Calleo in una avvincente ‘gara’ di bravura che li ha visti conquistare un pubblico attratto sia dalla intensità del testo, sia dalla elegante e coinvolgente rielaborazione musicale dovuta al lavoro di arrangiamento di Gianluca Cucchiara.
La collocazione all’aperto nella corte ferdinandea ha permesso oltretutto uno sfruttamento registico a tutto campo delle belle scene ideate dal compianto Giuseppe Andolfo, unitamente ai colorati costumi oggetto di continui ‘travestimenti’, fino alla completa utilizzazione di velari, abiti, tuniche mano a mano utilizzati e dismessi. L’accorto uso delle luci permetteva anche la realizzazione di veri e propri quadri plastici, acme dei quali la crocefissione ottenuta con semplici velari rossi e l’immagine finale raffigurante una poeticissima Pietà cui i due bravissimi interpreti hanno dato forma e luce.