Aldo Moro, il grande statista democristiano rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978, aveva in mente un grande progetto per giungere, sia a livello nazionale che nei diversi ambiti regionali, ad una “democrazia compiuta”, così la chiamava lui. Se questo era il fine cui tendeva, la mediazione politica per Moro diventava lo strumento necessario per favorire, a qualsiasi livello, una alternativa di governo democratica ed europea capace di far uscire l’Italia dalla crisi che allora la attanagliava.
Nell’ultimo libro di Leonardo Brancaccio, dal titolo “Aldo Moro. Il politico, il professore, il filosofo del diritto” (Ecra, 2022), si racconta a pag. 169 un episodio inedito degli insegnamenti e della pedagogia morotei. All’autore del libro lo racconta Gero Grassi, politico, giornalista e scrittore, che da parlamentare presentò nel 2013 la proposta di legge istitutiva di una commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, divenuta poi legge nell’anno successivo, e di cui lo stesso Grassi fece parte raccogliendo una serie importanti di documenti e di testimonianze.
Quando aveva vent’anni, esponente del movimento giovanile della DC in provincia di Bari dove non mancavano problemi di coesione interna, Gero Grassi si recò a Roma per parlarne personalmente con Aldo Moro, grazie ai buoni auspici di Renato Dell’Andro. Quest’ultimo, parlamentare democristiano dal 1963 al 1985, fu il successore di Moro nella cattedra universitaria e poi divenne anche giudice costituzionale. Era il gennaio del 1978, dunque qualche mese prima di quel 16 marzo 1978, il giorno della strage di via Fani in cui Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse.
Ricorda Gero Grassi, come riporta Leonardo Brancaccio nel suo libro, che il giorno in cui Moro lo ricevette nel suo studio romano erano in arrivo dalla Sicilia tre democristiani per prospettare al Presidente il tema difficile e complesso della Regione Siciliana. Con loro Aldo Moro avrebbe discusso della formazione della nuova giunta regionale che nei tre democristiani siciliani destava qualche preoccupazione per via della partecipazione del Partito Comunista al piano programmatico.
Moro chiese ripetutamente ad uno dei tre democristiani siciliani di assumere la responsabilità della guida della giunta regionale, per poter testare in Sicilia quanto il Presidente stava sperimentando per fare analogamente a livello nazionale, ovvero ampliare a sinistra il fronte della collaborazione politica fra i due maggiori partiti del Paese per consensi. La Democrazia Cristiana infatti aveva, per Moro, la necessità di avere una alternativa di governo democratica ed europea.
Prosegue il racconto Gero Grassi ricordando che, al termine dell’incontro con quei tre siciliani, non si parlò affatto del “piccolo” problema dei conflitti nel movimento giovanile democristiano barese, ma Aldo Moro spiegò al giovane allievo del suo collega Renato Dell’Andro l’intera operazione politica delle “convergenze parallele” e come la formazione del governo regionale in Sicilia potesse rappresentare un primo banco di prova importante.
Poi Moro venne rapito ed ucciso in quello stesso anno, ma i suoi insegnamenti agli esponenti politici siciliani non andarono dispersi.
Quei tre democristiani accolti a Roma nello studio del Presidente erano Michele Reina, Piersanti Mattarella e Rino Nicolosi.
Il primo Michele Reina, segretario provinciale della Dc di Palermo, venne ucciso la sera del 9 marzo 1979 e il suo omicidio venne attribuito a Cosa Nostra soltanto a seguito delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta nel 1984.
Il secondo Piersanti Mattarella, eletto presidente della Regione alla guida di una coalizione di centro-sinistra con l’appoggio esterno del Partito Comunista il 9 febbraio 1978, a poco meno di un mese dall’incontro romano con Aldo Moro, venne ucciso il 6 gennaio 1980, ancora una volta per mano della mafia.
Il terzo Rino Nicolosi raccolse l’eredità politica di Mattarella e, dopo i governi affidati a Mario D’Acquisto, Calogero Lo Giudice, Santi Nicita e Modesto Sardo, venne eletto Presidente della Regione il 23 gennaio 1985, insediandosi il 1 febbraio dello stesso anno, mantenendo la carica per sei anni e mezzo e guidando ben cinque governi della Regione.
Rino Nicolosi guidò un governo frutto dell’alleanza fra Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito repubblicano, Partito socialdemocratico e Partito liberale, ma fin dal suo discorso di insediamento fece aperture al Partito comunista.
Queste le parole pronunciate da Nicolosi “Questa maggioranza, consapevole delle proprie ragioni, vuole consolidare un punto di riferimento certo nella società e nelle istituzioni, adeguato alla gravità dei problemi che ci stanno di fronte, su cui intende stabilire con l’opposizione di sinistra un rapporto che, dando alla comunità certezza di ruoli e di responsabilità, avvii un fecondo confronto sui problemi nell’interesse dell’effettiva e sollecita soddisfazione dei bisogni popolari”.
“Siamo infatti ad un tornante della nostra storia comune – proseguì Nicolosi nel suo discorso – nel quale ogni sforzo va fatto per illuminare il cammino stretto che dobbiamo percorrere, per allontanare definitivamente gli anni orrendi della violenza e dell’angoscia, che proiettano ancora la loro ombra sulle coscienze e sulle istituzioni”.