Se c’è un’opera che esprime al più alto grado l’essenza della teatralità, intesa come tensione verso la bellezza e come esaltazione della finzione scenica che si fa al contempo verità per il tramite dell’arte, questa è “Adriana Lecouvreur” di Francesco Cilea. Per questo non ammette tradimenti e contaminazioni di alcun genere, perché poi tutto è riposto sulla musica, sul cesello di un’intimistica melodia sia pure ‘addobbata’ della retorica della recitazione tragica, come si addice ad una diva della Comédie Française. Aggiungi la raffinatezza dello strumentale non esente da ispessimenti di natura quasi sinfonica e ti rendi conto di come sia un’opera da trattare con particolare cura e con l’impiego di protagonisti cui si richiedono doti di grandi interpreti che travalicano il ‘semplice’ buon canto.
Il Teatro Massimo Bellini ci ha provato e, bisogna dire, con il miglior impegno possibile; quanto al risultato vale la pena di provare ad analizzarlo. Ma procediamo con ordine.
La regia, affidata al collaudato duo Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, con l’ausilio scenografico di Leila Fteita ed i costumi di Nicoletta Ceccolini, è partita da un’idea, peraltro ampiamente illustrata nelle note di regia, quella di esaltare (e omaggiare) l’arte del Sud, in particolare la Sicilia, con un occhio ai rapporti che intercorrono con la Calabria di Cilea e della famiglia Florio, così presenti e attivi nella Palermo della prima metà del Novecento. Alla luce di queste considerazioni è stata ricostruita un’ambientazione in pieno stile Liberty siciliano di primo Novecento (spostando quindi notevolmente in avanti la settecentesca collocazione francese). Bisogna dire che l’esito estetico ottenuto è assai gradito allo sguardo, se si è disposti a soprassedere all’incongruenza testuale che ne deriva e che nell’ultimo quadro fa apparire, per esempio, la francesissima principessa di Bouillon nelle vesti e nelle stanze di Donna Franca Florio.
Altro elemento scenico preponderante la pedana-palcoscenico, sempre presente nei quattro ‘quadri’ (leggi ‘atti’) a ricordarci che non di realtà trattasi ma di teatro nel teatro, con due primedonne protagoniste sulla scena, Adriana, attrice tragica della Comédie, cui il soprano Rebeka Lokar al suo esordio nel ruolo cerca di dare spessore e convinzione senza peraltro ripetere i fasti che l’hanno resa assoluta protagonista in Nabucco; qui, purtroppo, la voce tende a vacillare senza consentirle quelle sfumature, legati, portamenti, pianissimi, necessarie per realizzare quel côté indispensabile a rendere almeno credibile se non memorabile un personaggio emozionante come Adriana. Nel confronto-scontro ha buon gioco la principessa di Bouillon di Anastasia Boldyreva la cui calda voce mezzosopranile, grazie ad una linea di canto elegante ed appassionata scolpisce l’aristocratica presenza scenica del personaggio. La generosa baldanza tenorile di Marco Berti (Maurizio, conte di Sassonia) è principalmente votata ad una emissione tonitruante che non ammette sfumature e rischia di influire sulla correttezza dell’intonazione; cattura il gusto dei melomani in cerca di ‘grandi voci’ ma a discapito di un maggior rispetto agogico. Accurato nella definizione scenico-psicologica del personaggio di Michonnet il baritono Devid Cecconi cui non difetta una calda voce, ben timbrata, e un elegante fraseggio. Blagoj Nakoski e Gianfranco Montresor davano ottimo riscontro vocale e scenico rispettivamente all’Abate di Chazeuil e al principe di Bouillon. Angelo Nardinocchi, Marco Puggioni, Tonia Langella ed Elena Borin completavano il novero dei personaggi. Il balletto sul tema del giudizio di Paride (evidente omaggio di Cilea alla moda neoclassica di primo Novecento) ha aggiunto un tocco di giovanile freschezza coordinata coreograficamente da Giusy Vittorino.
Ammirevole il lavoro di concertazione di Fabrizio Maria Carminati alla ricerca di un suono equilibrato che, al contempo, restituisse tutta la ricchezza e raffinatezza dell’ordito orchestrale. Preziosa e puntuale la risposta dell’intera orchestra come pure l’apporto del coro (istruito da Luigi Petrozziello), assolutamente encomiabile.